Far parte della prima, vera, ondata di appassionati collezionisti di sneakers – la parola sneakerhead, se non si fosse capito, non ci piace granché – è senza dubbio un’arma a doppio taglio. Da una parte significa che le primavere ormai alle nostre spalle sono molte, certo. Ma dall’altra, possiamo dire di aver osservato cambiamenti epocali all’interno di questo mondo fatto di gomma, suede e mesh, che sembra solo un piccolo particolare nell’enormità del mercato globale, eppure muove cifre davvero importanti.

Cifre che passano, soprattutto, attraverso il lavoro di chi le scarpe le vende, anche all’interno di quel particolare tipo di negozio specializzato che rappresenta la vera novità degli ultimi vent’anni: lo sneakershop.

Già, pensateci: prima del crepuscolo del ventesimo secolo, l’idea di negozi dedicati esclusivamente alle sneakers – capaci non solo di fare da tramite tra aziende e consumatori, ma soprattutto di trasmettere passione e, perché no, una certa cultura legata al prodotto – era quasi una chimera. Poi, con la fine dello scorso millennio, le cose sono iniziate a cambiare velocemente: i negozi di articoli sportivi classici hanno iniziato a sparire, uno dopo l’altro. Caduti sotto i colpi di catene di distribuzione enormi (come Foot Locker) che a quei tempi dominavano il mercato, certo, ma non solo. Il punto era anche che i consumatori cercavano qualcosa in più rispetto all’esperienza che quei negozi erano in grado di offrire, e naturalmente la prima idea per risolvere questa esigenza è stata quella di guardare verso le glorie del passato: già prima del 1995 si poteva registrare un crescente interesse nei confronti delle sneakers vintage, interesse che nel 1999 si era trasformato in un vero e proprio mercato, fiorente soprattutto in città come Tokyo in Giappone e Londra in Europa. Proprio nella capitale inglese erano nati diversi negozi specializzati, concentrati soprattutto nelle zone di Covent Garden e Camden Town, che vendevano sneakers vintage, dead stock e usate, insieme ad abbigliamento militare e a quello che ai tempi era una novità chiamare “streetwear”. Spesso quelle attività erano state create da alcuni appassionati proprio comprando stock provenienti da vecchi negozi sportivi ormai sulla via del fallimento, inevitabilmente superati dalla storia e dal mercato. Erano nati gli sneakers shop, che trattavano le scarpe come i record store trattavano i dischi: con passione, cultura e una notevole dose di nerdismo. Senza saperlo, questi ragazzi stavano cambiando il volto del mercato mondiale, pur partendo da imprese fieramente locali.

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I grandi brand naturalmente non ci misero molto a intercettare questo movimento, e iniziarono a proporre timidamente qualche modello retro richiestissimo dai collezionisti, come le Air Jordan V e le prime Air Max 1. Ma soprattutto, cominciarono a chiedere ai proprietari dei piccoli negozi indipendenti di associarsi a loro in qualche modo, in cambio di investimenti e di appoggi dal punto di vista del marketing e della distribuzione. Così le scarpe vintage sparirono piano piano dalle vetrine di queste attività commerciali, mentre i negozi si ristrutturavano e si dedicavano anima e corpo alla vendita di scarpe nuove: magari di quei modelli retro che nel frattempo erano entrati a pieno titolo nei cataloghi stagionali delle aziende multinazionali, oppure di quelle limited edition collaborative che apparivano la più eccitante novità prodotta da quella che qualcuno iniziava a chiamare, senza vergognarsi, “sneakers culture”. Sotto un’insegna come quella di FootPatrol – che rappresenta lo sneakers shop OG per antonomasia – si trovava tutto questo, e l’invadenza dei grandi marchi era mitigata dalla personalità di amatori decisi a trasformare la loro passione in un lavoro, ma poco disposti al compromesso.

I colossi del mondo sneakers stavano cercando di capire in che direzione muoversi, alla ricerca di nuove strade da percorrere, ed erano molto interessati a tutti i movimenti provenienti dal basso, dalla creatività delle grandi metropoli. Sarebbe stato bello se aziende e appassionati fossero riusciti a mettere in piedi un vero, costruttivo rapporto di collaborazione. Ma l’equilibrio tra enorme e piccolissimo è molto, molto difficile da raggiungere. Soprattutto in un momento storico come i primi quindici anni del ventunesimo secolo, caratterizzato da trasformazioni velocissime e rivoluzionarie, come mai il mercato aveva affrontato nel passato. Pensiamo naturalmente all’enorme sviluppo di internet, che ha visto blog e forum di informazione, punto di riferimento per i primi sneakerhead, trasformarsi in veri e-commerce, mentre intorno ad essi si sviluppava un panorama sempre più popolato di remake e progetti collaborativi.

Ma torniamo agli sneakers shop fisici. A metà dei Duemila, il fenomento era ormai diffuso in tutta Europa: Solebox, Sneakersnstuff, Hanon, Patta, 24 Kilates, V Round, la prima versione di Colette… la lista era lunga, e ogni giorno si sarebbero potute contare nuove aperture, sull’immaginaria mappa delle boutique europee. Ma come dicevamo poche righe più su, si trattava di un mercato costruito su fondamenta disomogenee, e per questo destinato a crollare al primo smottamento.

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Uno smottamento puntualmente arrivato tra 2007 e 2008, con la nascita di realtà decise a unire l’esperienza delle piccole sneakers boutique con i numeri dei grandi key account di distribuzione: l’esempio tipico è quello di Size?, catena diffusa sul territorio inglese (e oggi presente in mezza Europa) che voleva rendere disponibile al grande pubblico il gusto ricercato degli appassionati e dei collezionisti. Agli occhi dei grandi brand – non c’è da stupirsene – l’idea apparve vincente, e così tutti quanti, a partire da Nike e adidas, iniziarono a investire energie e denaro su questo tipo di store. Ma nacque immediatamente un problema: iniziava a mancare l’esclusività, e con essa l’ossigeno per i piccoli sneakers shop. Trovare lo stesso prodotto in troppi negozi provocava infatti un certo disamore da parte degli appassionati, togliendo quella patina di autenticità che dava senso all’esistenza stessa di quei luoghi. I primi sneakers shop, così, iniziano a chiudere, sostituiti da altri meno indipendenti e più business-oriented come Titolo (Svizzera), Overkill (Germania), End Clothing (Inghilterra), Space 23 (Italia).
Non si tratta per forza di un fatto negativo, semplicemente di un cambiamento. Ma abbiamo notato che i nuovi consumatori, gli adolescenti, non sembrano avere la stessa passione per il prodotto che animava gli appassionati della generazione precedente, che oggi ha da poco superato la ventina. Forse dipende proprio dalla mancanza della mediazione da parte di veri amatori, come quelli che hanno animato la nascita dei primi sneakers shop.
Senza cultura, ne siamo certi, anche il migliore prodotto non si vende. E allora, forse è il caso di recuperare ciò che c’era di buono nell’esperienza degli sneakers shop OG. Vedremo se qualcuno sarà in grado di farlo nei prossimi anni.

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